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Su LinkedIn si possono leggere tantissime presentazioni di consulenti web marketing che ci dicono “Aiuto le aziende ad aumentare le vendite” oppure “Aiuto le imprese ad avere più visibilità” e via dicendo. Perché è questo, in fondo in fondo, che fanno i consulenti: aiutano i propri clienti. Il fatto di incentrare sull’aiuto e dunque sul supporto la nostra occupazione, però, ci porta non di rado a fare più del necessario, o meglio, a fare delle cose che nessuno ci ha domandato di fare, e che peraltro molto spesso potrebbero risultare inutili. Sì, perché quando pensiamo a dei professionisti che aiutano gli altri pensiamo prima di tutto ai medici e agli infermieri, che ogni giorno salvano delle vite o preservano la salute dei loro pazienti; pensiamo ai vigili del fuoco, con i loro rischiosi interventi d’emergenza; o pensiamo a tutte quelle persone che ogni giorno lottano strenuamente contro l’estinzione del rinoceronte nero, dell’orango del Borneo, dell’elefante di Sumatra o del leopardo dell’Amur.

Ecco, quelle persone, quei professionisti, hanno un obiettivo, uno scopo: salvarli tutti. I pazienti, gli oranghi, i leopardi, quando è possibile, tutti devono essere salvati, anche di fronte a sforzi notevoli e persino a dei rischi. Ma occhio, non deve essere così anche per il consulente, stiamo parlando di due tipi di “supporto” differenti, tanto più che i destinatari sono molto diversi. Una cosa è un panda, un’altra cosa è un albergatore che, nonostante i migliori consigli, continua a sbagliare tutto in fatto di marketing. Una cosa è un rinoceronte di Giava, un’altra un rivenditore d’auto che nonostante una consulenza completa continua a fare di testa sua – e a sbagliare – sul lato della comunicazione. Le cose sono diverse per tantissimi aspetti, a partire dal fatto che né l’orango né la tartaruga embricata possono salvarsi da soli – nemmeno con la migliore delle consulenze. È diverso invece il caso di quell’imprenditore che, pur avendo tutti gli strumenti e le conoscenze necessarie, continua testardamente e consapevolmente a sbagliare, e quindi sì, a muoversi passo dopo passo verso la propria estinzione.

Certo, quanto detto da Darwin sulla sopravvivenza del più adatto è crudele. Eppure il meccanismo della selezione naturale viene in fin dei conti replicato anche nel mondo del business: resiste solamente chi è in grado di adattarsi. Ed è per questo motivo, e per tutto quello che ho detto sopra, che dico – e che ripeto – che noi consulenti non dobbiamo salvarli tutti.

E proprio in queste ultime settimane mi sono ritrovato a ripetermi più di una volta – e più di quanto avrei voluto – questo concetto. In questo periodo sto facendo tanta formazione, con tanti corsi relativi al marketing per tante differenti realtà, soprattutto all’intero del comparto turistico. E sì, ovviamente offrendo della formazione a delle agenzie di viaggio non posso che venire in contatto, molto frequentemente, con delle realtà che stanno soffrendo in maniera abnorme questa lunga emergenza sanitaria, che sembra essere concepita in ogni suo dettaglio proprio per bombardare chi lavora nel turismo.

Ecco quindi che sono doppiamente spronato a fare del mio meglio per offrire agli operatori turistici in difficoltà il più efficace dei supporti, finanche a livello formativo, per rilanciare al più presto la propria attività con delle corrette e personalizzate strategie di marketing. Ma occhio: dall’impegnarsi al massimo per fare nel migliore dei modi il proprio lavoro al passare alla modalità “salviamoli tutti” il passo è breve, soprattutto per quei consulenti che dentro di sé hanno almeno un po’ di sindrome di crocerossina.

Di nuovo: non dobbiamo salvarli tutti. E per spiegarti perché, voglio portarti l’esempio della proprietaria di un’agenzia di viaggio che ha partecipato qualche giorno fa a un mio corso. Devi sapere che, durante questi eventi formativi, cerco sempre di tradurre la teoria in pratica prendendo in considerazione per quanto possibile i casi reali dei partecipanti. Ecco che dunque, parlando di web marketing e di presenza online, mi è capitato di prendere in considerazione il sito web dell’agenzia turistica gestita da una imprenditrice.

Le criticità sul portale erano lampanti, palesi, e l’ho fatto cortesemente presente dopo due secondi. E qui l’imprenditrice, lo devo ammettere, ha convenuto che sì, il sito web aveva importanti lacune, ma che loro potevano fare ben poco, essendo quel portale in mano al tour operator. Insomma, su quel fronte potevano fare poco o nulla “però” ha orgogliosamente sottolineato l’imprenditrice “sui social network abbiamo mani libere, e possiamo fare quello che vogliamo”.

Non l’avesse mai detto.

Ovviamente la mia analisi si è spostata sui social network, e nella fattispecie su Facebook. Occhio: il mio intento non era quello di demolire o di rinnovare la presenza online dell’agenzia, quanto invece quello di partire da uno spunto reale per spiegare come effettivamente gestire la propria presenza online, dando in parallelo un supporto concreto all’agenzia stessa.

Anche qui, sulla pagina Facebook dell’agenzia, le criticità non mancano. Anzi. Mi è bastato dare un’occhiata agli ultimi 5 post per sottolineare le evidenti criticità all’imprenditrice, la quale però questa volta non è apparsa assolutamente disposta ad accettare – o a vedere – i problemi presenti. E lì è iniziata la testarda e inaspettata difesa a testa bassa del proprio operato: “noi abbiamo fatto un calendario editoriale”, “noi ci siamo affidati a una social media manager”, e via dicendo.

Lo scenario sulla pagina Facebook dell’agenzia era – e penso sia tuttora, visto come è andata a finire la discussione – quello che purtroppo si trova su tante pagine di questo tipo. Nessuna immagine coordinata, nessuna idea di fondo, nessun post utile all’utente, nessun contenuto interessante, solo post orientati alla vendita, nessun numero preso in analisi, etc.

Di fronte alla strenua difesa della propria ‘strategia di social media marketing’, faccio un respiro profondo. Ne faccio un altro. E cerco di tranquillizzare l’imprenditrice, spiegandole che lei mi sta pagando il corso con l’obiettivo di imparare qualcosa in più, che io sono dalla sua parte, che le osservazioni sulla loro pagina Facebook non devono essere prese come offese, e via dicendo.

Niente da fare, se l’era presa.

Allora ho cercato di farle capire che la mia non era una presa di posizione soggettiva e malintenzionata contro la sua pagina, contro la sua social media manager, contro la sua agenzia o contro l’imprenditrice. Ho dunque fatto leva sui dati oggettivi che Facebook mette a nostra disposizione per capire se stiamo facendo bene oppure male. Le ho fatto l’analisi del pubblico della pagina, cosa che la social media manager – probabilmente pagata poco, non dico il contrario – non si era nemmeno sognata di fare. Lo stupore dell’imprenditrice nello scoprire, solo in quel momento, il pubblico della pagina Facebook era palpabile.

Poi le ho fatto vedere la portata dei post, le percentuali di interazioni, le percentuali di visualizzazione del video e via dicendo. E sì, mi dispiace dirlo, ma questi dati mostravano un efficacia prossima allo zero dei post creati, con un livello di engagement che si mostrava rasoterra ancor prima di passare all’analisi di queste informazioni. E anche in questo caso, questi dati venivano visti per la prima volta, nonostante il ‘calendario editoriale’, la ‘social media manager’, etc.

Di fronte a tutti questi dati, lo devo ammettere, si sono aperte alcune piccole crepe nel coriaceo muro di difesa dell’imprenditrice. Ma non abbastanza per convincerla che era necessario un effettivo cambio di passo: nonostante queste ovvietà, nonostante il messaggio esplicito che portavano i dati che le avevo mostrato, era comunque convinta di aver costruito una buona strategia di comunicazione sui social media.

Non stiamo parlando di una imprenditrice che ha iniziato ieri a gestire un’agenzia turistica, e non stiamo parlando nemmeno di 10 anni fa, quando tutto sommato la comunicazione sui social era ancora un mistero (legittimo) per tantissime aziende. Stiamo parlando di una professionista che, come chiunque altro, può accedere a fiumi di informazioni in rete, a scaffali e scaffali di libri sul tema, a corsi con professionisti del settore, a un oceano di competenze disponibili. Eppure, lei e tantissime altre persone, continuando a remare nel verso opposto, rimangono nella convinzione di essere nel giusto, pur infrangendo giorno dopo giorno, post dopo post, le più banali leggi della comunicazione.

Cosa dobbiamo fare noi consulenti di fronte a questi scempi? Certo, la mia barba potrebbe trarre in inganno, ma non siamo profeti di un qualche sapere misterioso e fondato su una fede incerta. No, i numeri sono numeri: se sul web ti muovi nel modo giusto, avrai successo, se sul web ti muovi nel modo sbagliato, scomparirai. Comprenderlo è facile. Non lo capisci? Non vuoi capirlo? Allora, dopo aver provato una o due volte a farti cambiare idea, noi consulenti non possiamo che dire, con tutta la calma del mondo – dopo aver fatto un paio di respiri profondi – ‘chissenefrega’. Non possiamo, anzi, non dobbiamo salvarli tutti.

Non possiamo rincorrere le aziende pregandole di migliorare le loro performance, non è il nostro compito stalkerare un imprenditore supplicandolo di lavorare meglio per vendere un numero maggiore dei suoi servizi o dei suoi prodotti. Mi paghi per spiegarti cosa devi fare e poi fai quello che vuoi? Sticazzi. Tu non sei un panda, io non sono un medico, non ho fatto nessun giuramento di Ippocrate.

Il web, da solo, non è la panacea di tutti i mali. Chi lo usa male non solo non crescerà, ma peggiorerà, e persino in tempi brevi.

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