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Oggi ti parlo di personal branding. Sono le 21:00 e dopo una lunga giornata passata a fare formazione in azienda, mi sono trattenuto in albergo per rispondere a qualche e-mail. Lo stomaco, ancora prima dell’orologio, mi ha fatto notare che è decisamente il momento di schiodarsi dalla scrivania della stanza e cercare un ristorante in cui mettere qualcosa sotto i denti. Nessun consiglio da parte di amici, nessuna domanda al receptionist dell’hotel, nessuna ricerca su TripAdvisor o simili: stasera mi butto, “a naso”. Meglio, “a pancia”.

Vedo da lontano un’insegna invitante, con nome e logo del ristorante ben illuminati. Dall’esterno mi sembra decisamente occhei, i tavoli sono quasi tutti pieni nonostante sia un qualsiasi giorno feriale, l’atmosfera mi sembra tranquilla. Vada come vada, mi butto, non ho voglia di cercare oltre. Un cameriere gentile, con camicia e grembiule con logo del locale, mi fanno sedere a un tavolo, con tovaglia, tovagliolo e bicchieri a loro volta provviste di logo del ristorante. Mi portano il menu, anch’esso recante il logo non solo in copertina, ma in ogni singola facciata. A questo punto alzo lo sguardo, mi guardo intorno: il disegnino che rappresenta il ristorante è ripetuto sopra l’entrata della sala, al bancone del bar, sotto la spina della birra, sulla porta del WC e su una finestra grande che dà, presumibilmente, su un giardino. Mi arriva il piatto che ho ordinato, e sì, il logo è anche lì, sulla porcellana bianca. E si ripeterà di nuovo al momento del dolce, con tanto di cioccolatino personalizzato con il nome del ristorante.

Mi sono posto dunque una domanda: a partire da quale punto si può parlare di overbranding? Quando l’affermazione di esistenza di un brand, qualsiasi esso sia, diventa eccessiva? Suvvia: chi ha predisposto tutti quei loghi nel ristorante temeva forse che i clienti, tutti quanti, si dimenticassero ogni 5 secondi in quale locale si trovavano? Del resto, questo si ripete in tante altre situazioni. Basterebbe contare tutte le volte che il marchio viene ripetuto all’interno dell’automobile, come se il conducente non si ricordasse quale macchina ha comprato.

Il problema è che l’over branding, quando è davvero eccessivo, denota una certa insicurezza, come se si volesse ribadire la propria presenza di fronte a un pubblico che, fino a quel momento, non ci ha seguito abbastanza. Ma non è certo moltiplicando la presenza di un logo in ogni dove che si riesce a persuadere il pubblico della bontà di un determinato brand.

E se tutto questo succede nel mondo ‘classico’ del branding, può ripetersi anche in quello del personal branding. Sì, anche qui è possibile esagerare. Ricordiamocelo bene: lo scopo del personal branding è quello di essere ricordati, riconosciuti e quindi scelti. Non è quello di essere ‘visti’: in quel caso, sì, riempire la città con il nostro logo e la nostra faccia potrebbe essere effettivamente utile. Ma non è così!

Fare personal branding vuol dire comunicare, comunicare la propria immagine, il proprio focus, il proprio io. Ma non significa annoiare, non significa produrre un suono fastidioso che, alla lunga, non può che urtare le orecchie del pubblico. Per fare personal branding in modo efficace, insomma, non bisogna mettersi in mezzo alla pubblica piazza con un megafono e tessere le proprie lodi a tutto spiano, ricordando a ogni piè spinto i propri punti di forza, i propri successi e via dicendo. Non si fa in piazza, e non si fa sui social network, sui forum, nel blog, durante le conferenze e no, non si fa nemmeno durante un incontro con un nuovo potenziale cliente. Per dire: riempire la propria pagina Fb di selfie sulla spiaggia non è fare personal branding, a meno che tu non sia una modella di costumi da bagno

Sì, il tuo personal brand sei in primo luogo tu, è costruito e costituito da te, da quello che sai comunicare, ma soprattutto da quello che riesci a far arrivare alle persone che costituiscono il tuo pubblico. Non è un caso se, quando si vuole introdurre qualcuno nel magico mondo del personal branding, si cita solitamente la famosa frase di Jeff Bezos, la quale dice che «il personal brand è quello che le persone rimaste dicono di te quando esci da una stanza». Da questo punto di vista, quindi, bisogna capire che il personal brand si mostra, non si racconta.

Ed è per l’appunto quando si tende a raccontare troppo senza mostrare nulla che si rischia di entrare nel pericoloso campo dell’overbranding.

Creare un brand significa creare una storia: ecco allora che diventa preziosa, anche per chi vuole sviluppare il proprio personal brand, la regola d’oro dello storytelling, ovvero “Show, Don’t Tell!”.

Certo, per sviluppare un rigoglioso brand personale devi individuare il tuo focus, i tuoi punti forti, le tue caratteristiche e le tue particolarità. Ma da lì in poi non devi limitarti a sbandierare questi elementi con una comunicazione fine a sé stessa: devi dimostrare le tue capacità e il tuo valore con contenuti e comunicazioni interessanti e utili, andando oltre la pura autoreferenzialità e l’autopromozione spinta!

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