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‘Alessandro Mazzù: Digital Marketing Consultant, Podcaster, Company Trainer, top 5 marketers italiani barbuti’. Oppure ‘Alessandro Mazzù: Consulente dei consulenti di web marketing, Hall of Fame of Yellow Lovers Consultant’. E tu, cosa hai scritto nel tuo sommario su LinkedIn? Non te lo chiedo in modo retorico: ultimamente sono diventato un fervido lettore dei sommari altrui su LinkedIn. D’altronde, stanno lì apposta, e anzi, sono l’elemento più importante di un intero profilo Linkedin. Parcheggiati subito sotto alla foto profilo e al nome, i sommari hanno il compito arduo di presentare in uno spazio estremamente ristretto quel particolare professionista, cercando di intrigare gli altri utenti potenzialmente interessati. Parliamo quindi di potenziali clienti, partner, datori di lavoro, cacciatori di teste e via dicendo.

Perché sono diventato un lettore di sommari di LinkedIn? Potrei dire che è perché ho terminato tutte le etichette delle bottigliette di shampoo (per la barba). In realtà, però, è per un motivo più complesso, con una torbida venatura di sadismo. Sì, perché spesso e volentieri – soprattutto nel mondo del marketing – si incontrano dei personaggi con dei sommari LinkedIn da far accapponare la pelle. Parlo di tutte quelle persone che, accanto alla propria professione, inseriscono la loro posizione in una fantomatica classifica di origine nella maggior parte dei casi assolutamente imprecisata. C’è chi si definisce l’esperto di marketing #1 nel Paese, chi si proclama social media manager nella top five europea, chi si mette sul podio dei digital strategist della Repubblica Galattica, e via dicendo. Sui sommari LinkedIn si arriva a spararle così grosse, ma così grosse, che una volta che si inizia a leggerne non si può più smettere, e si continua alla ricerca di chi fa di peggio. E sì, ne ho finalmente la conferma: al peggio non c’è davvero limite, c’è sempre qualcuno che riesce a fare quel piccolo passettino in più.

Ma da dove vengono queste classifiche? Come si può immaginare, in molti casi, non esiste nessuna reale classifica. Si tratta di persone che una bella mattina si alzano, bevono il loro caffellatte, si vestono e così, prima di uscire di casa, decidono di appuntarsi al petto la medaglia del guru di marketing più biondo della regione, o quella dell’esperto SEO con con più dita nella mano sinistra, o che so io. Altre volte, invece, si tratta di classifiche “reali” stilate seguendo però dei metodi quantomeno discutibili o totalmente campati per aria, che vengono effettivamente pubblicate su qualche rivista di dubbio gusto, dietro lauti pagamenti da parte dell’interessato. Chi paga di più si accaparra la posizione migliore, come a teatro o allo stadio, ma in modo decisamente più meschino. 

Cosa faccio quando mi imbatto nell’ennesimo sommario LinkedIn contenente una classifica al limite del fantasioso? Prima di tutto, mi rallegro: da bravo collezionista, il momento della scoperta di un nuovo esemplare mi rallegra sempre. La mia felicità dura però solo qualche millesimo di secondo, per poi venire sopraffatto da una carica di rabbia, di fastidio e di sdegno che mi fa interrogare seriamente sulla salubrità di questo passatempo: per quanti mesi potrà coltivare questo hobby prima di rodermi il fegato del tutto. E poi? Poi, passato il primo istante di felicità e le ore di rabbia, gli impulsi sono due. Da una parte c’è quello che mi spinge a uscire, raggiungere ovunque esso sia il digital marketer #1 di Oz e prenderlo a ceffoni. Il secondo impulso, più urbano, è quello di sostituire la violenza con un cortese spiegone, da indirizzare direttamente via LinkedIn al diretto interessato.

Fino ad oggi non ho seguito nessuno dei due impulsi. Ho però deciso di scrivere questo post, per far desistere quante più persone da seguire l’esempio drammatico di questi maniaci delle classifiche a pagamento. E questo lo dico pur sapendo che, così facendo, avrò sempre meno sommari allucinati da inserire nella mia collezione. Lo faccio un po’ per l’affetto che provo nei confronti dell’umanità, un po’ per il mio fegato.

Perché dovresti evitare di inserire questi dati nei tuoi sommari, o in qualsiasi presentazione della tua figura professionale? Prima di tutto perché sono di una fastidiosità bestiale. In secondo luogo perché, a livello strategico, corrispondono a dell’immondizia. Pura e semplice spazzatura digitale. Hai mai dato un’occhiata ai profili LinkedIn dei veri guru del marketing, quelli che non abbisognano di presentazione, quelli che davvero hanno le ‘palle quadrate’? Parlo per esempio di Seth Godin, che su Linkedin si presenta così:

Founder of the altMBA, blogger, entrepreneur and author.

 

Oppure di Guy Kawasaki:
Chief evangelist of Canva and podcaster

 

O di Neil Patel, stringatissimo:
Co-Founder at Neil Patel Digital

 

O ancora, di Brian Clark:
Founder of Copyblogger. Curator of Further. Host of Unemployable.

 

Hai visto qualche classifica, qualche top five, qualche podio, quale Hall of Fame? No, direi di no. Eppure siamo di fronte ad alcuni tra i personaggi più importanti del mondo del marketing, professionisti che sì, in una classifica reale, scientificamente redatta e trasparente, sarebbero effettivamente nelle primissime posizioni! Forse… forse si sono dimenticati di inserire il loro piazzamento nel loro sommario di LinkedIn. Oppure… oppure hanno deciso di presentarsi in modo essenziale, sincero, diretto, scansando il rischio di diventare ridicoli.

E poi ci sono loro, i miei campioni, i profili LinkedIn che fanno parte della mia collezione. Loro non hanno paura di scadere nel ridicolo, loro, nel definirsi come il #1 guru del marketing 2020 della Bassa Brianza occidentale non provano alcuna vergogna. É una questione di faccia tosta? No, è anche sintomo di una certa immaturità professionale, un sintomo che, essendo mostrato sul sommario di LinkedIn, è decisamente manifesto, è proprio lì dove non dovrebbe essere. 

Dal punto di vista della strategia di personal branding questi sommari sono quanto di peggio possa esistere. Avere un buon personal brand vuol dire avere un focus ben preciso, vuol dire essersi differenziati dagli altri, vuol dire poter vantare un marchio riconoscibile a una prima occhiata, e quindi da presentare in modo essenziale, chiaro, asciutto. Più sei capace, più sei stato in grado di far capire al tuo pubblico che hai un bagaglio di competenze specialistiche estremamente prezioso, meno avrai bisogno di scrivere nel tuo sommario, nella tua bio, sul tuo bigliettino da visita. E di certo non ti servirà pagare qualcuno per essere inserito in una classifica con la serietà delle barzellette che si trovano sul gelato Cucciolone. Basteranno poche parole, quelle giuste, perché nella mente della tua audience, sotto quella etichetta, ci sarai solamente tu, e nessun altro.

Ti restano quindi solamente due cose da fare. Per prima cosa, nel dubbio, vai a controllare la tua bio su LinkedIn; non sia mai che, magari dopo un bicchiere di troppo, tu abbia inserito il tuo terzo posto faticosamente conquistato al concorso di disegno alle scuole elementari; come seconda cosa, mi raccomando, evita anche solo di cominciare a leggere le bio e i sommari dei supposti guru del marketing. All’inizio pensi di poter smettere in qualsiasi momento, per poi renderti conto di essere entrato in un vortice senza fine di sadismo e rabbia verso il prossimo!

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