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«Non sei definito dal titolo del tuo lavoro, e non sei limitato dalla descrizione del tuo lavoro» scriveva così Tom Peters nel 1997, in un pezzo pubblicato su Fast Company in quello stesso termine d’estate in cui, per dire, il mondo diceva addio a Maria Teresa di Calcutta e alla principessa Diana, nonché negli stessi giorni in cui Larry Page e Sergey Brin lanciavano Google.

Per l’appunto, non sei definito dal titolo o dalla descrizione del tuo lavoro: «starting today you are a brand», ovvero «a partire da oggi sei un marchio». Era questo il cuore del pezzo in cui Peters lanciava il concetto di personal branding, oggi così in voga, così usato, così confuso. E continuava dicendo che «sei un marchio tanto quanto Nike, Coke, Pepsi o Body Shop. Per iniziare a pensare come il tuo brand manager preferito, dovresti porti la stessa domanda che si pongono i brand manager di Nike, Coke, Pepsi o Body Shop: cos’è che rende il mio prodotto o servizio diverso?».

Le strategie di personal branding propriamente dette erano ancora di là a venire, si era agli albori di un’attività che si sarebbe ampliata molto negli anni successivi, in parallelo peraltro all’evolversi delle nuove tecnologie. Oggi tantissimi parlando di personal branding, citando questo nome fighissimo per indicare però, molto spesso, qualcosa di molto diverso. Potremmo dividere il mondo delle persone che usano questo termine in due grandi gruppi: da una parte possiamo mettere chi si occupa di personal branding, dall’altra invece chi parla di personal branding ma che ha delle idee un po’ confuse, e che di fatto parla “per sentito dire”, senza aver mai approfondito concretamente – e dalle fonti giuste – la cosa.

Dunque, che cosa è il personal branding? Di definizioni, ufficiali, ufficiose e amichevoli, ce ne sono un sacco, di volta in volta più o meno autorevoli. Tale Jeff Bezos, che si dà il caso sia il fondatore di un sitarello chiamato Amazon, ha detto che il personal branding è «quello che le persone dicono di te quando esci dalla stanza». Il che da un certo punto di vista è vero, ma più che essere una definizione completa questa è una definizione affascinante, parziale e pure un pochino pungente. Altri la prendono molto più alla larga, e dicono che il personal branding è tutto quello che diciamo o facciamo, sia offline e online. Una definizione che potrebbe creare un po’ d’ansia, e che crea un po’ d’atmosfera alla Grande Fratello (quello di George Orwell di 1984, non quello della Marcuzzi), non credi?

Una definizione più completa e corretta è quella che dice che il personal branding è quell’attività che permette di impostare una strategia per definire le nostre caratteristiche in modo efficace, per spingere il pubblico a scegliere noi e non altri.

Questo è, per dirla molto brevemente, cosa è – in generale – il personal branding. E cos’è invece il personal branding per chi parla di personal branding senza sapere in realtà molto bene di cosa sta parlando, e quindi purtroppo della maggior parte delle persone? Ecco, per queste persone fare personal branding significa aggiornare il profilo Facebook, aprire un account su Instagram, lanciare un sito web, e via dicendo. L’errore, a pensarci su un pochettino, sembra abbastanza palese e immediatamente riconoscibile. Qui si sta infatti confondendo l’attività con lo strumento. Un po’ come se si dicesse che giocare a calcio significa mettersi gli scarpini, indossare i parastinchi e portare il pallone. Il profilo Facebook, il profilo Instagram, il sito web, sono tutti strumenti – o meglio, canali – che ci permettono di fare personal branding. Ma stare su Facebook non equivale ad avere una strategia di personal branding, tant’è vero che di fatto si può benissimo di per sé fare personal branding anche senza Facebook.

Anche per questo motivo, per evitare dubbi o fraintendimenti di questo tipo, quando parlo di personal branding lo definisco in modo piuttosto breve ma assolutamente non fraintendibile: in estrema sintesi infatti, dico solitamente che il personal branding è il marketing personale, ovvero di fatto il marketing applicato alla persona. E perché quindi si dice personal branding anziché marketing personale? Un po’ per colpa o per merito di Peters e degli altri che per primi hanno parlato di questa peculiare attività oltre vent’anni fa, un po’ perché, come detto, il nome personal branding è un po’ più figo, più moderno. Di certo è troppo tardi per convincere tutto il mondo a parlare di marketing personale, è una battaglia che nessuno vorrebbe affrontare.

Capire cosa è il personal branding, quando lo si definisce come il marketing applicato alla persona, è però più semplice. E questo termine permette inoltre di capire immediatamente che è qualcosa di più profondo dello starsene sui social network. Sì, perché fare marketing – per quanto personale – significa occuparsi dei passaggi fondamentali come della scelta del pubblico, della definizione degli obiettivi, dell’individuazione dei valori, della selezione dei canali, della decisione di quali metriche di misurazione utilizzare e quant’altro. Usando il termine marketing personale, insomma, si riesce a spostare l’attenzione dallo strumento alla strategia, dall’apparenza alla ciccia.

Tutti hanno un brand personale, perfino chi non ha uno straccio di social network, e che nemmeno usa Whatsapp. Questo perché, per riprendere il concetto di Bezos, tutti lasciano dietro di sé una serie di impressioni quando escono da una stanza, lo hanno sempre fatto, prima dei social network, blog, tv, riviste, telegrammi e libri. Occuparsi di personal branding o di marketing personale, a prescindere dall’etichetta che si vuole dare a quest’attività, consiste nel fare in modo di ottimizzare queste impressioni, di modo che il pubblico di riferimento inizi e continui a preferire il nostro marchio a quello altrui.

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