Il canale Telegram ufficiale di Alessandro Mazzù

L’ho sempre detto: tra le doti principali di un bravo consulente di marketing c’è anche e soprattutto una buona attività di ascolto. Questo vuol dire essere in grado di sedersi davanti al cliente o potenziale tale e riuscire davvero a comprendere quali sono i suoi obiettivi, quali sono le sue preoccupazioni e paure, quali sono le sfide che deve affrontare. Il tutto senza pensare di avere già la soluzione in tasca, senza avere l’urgenza di voler dire la propria, senza pregiudizi. Detta così sembra una cosa facile, ma non lo è affatto. Ci sono infatti tanti consulenti che da questo punto di vista peccano, e pure parecchio, con risultati deludenti o persino deleteri.

Ma non basta essere in grado di ascoltare, a un certo punto bisogna anche parlare, comunicare, spiegarsi bene. E lo si deve fare prima di tutto con i clienti, ma anche con i collaboratori e con le altre persone coinvolte nel progetto. Nemmeno qui mancano le difficoltà: una su tutte, riuscire a farsi comprendere. Il problema è che il consulente, che in quanto tale dovrebbe essere un esperto di una certa nicchia, tende talvolta a parlare in modo troppo tecnico. Per diversi motivi: perché siamo portati a dire pane al pane e vino al vino, indicando i diversi elementi e concetti con i termini esatti. Perché vogliamo dimostrare di essere esperti anche nel modo in cui parliamo. E perché alla maggior parte delle persone, almeno un po’, piace un sacco ascoltarsi mentre si parla di cose conosciute, padroneggiate.

Peccato che chi ci sta ascoltando, nella grandissima parte dei casi, non padroneggia quanto noi la nostra materia. Il che è un bene, altrimenti noi non avremmo alcun motivo di esistere in quanto consulenti. Ma è anche un male, perché è possibile che questo gap di competenze, che può essere anche enorme, renda la comunicazione difficile, con conseguenze che possono essere gravi sul lavoro stesso del consulente.

Non bisogna mai dimenticare che chi ci troviamo di fronte potrebbe avere delle difficoltà oggettive nel capire quello che diciamo, per quanto il nostro linguaggio sia esatto, per quanto la nostra eloquenza sia mirabile. Anzi, talvolta è proprio l’uso dei paroloni che ci frega.

Partiamo da un presupposto molto semplice: in Italia il 28% della popolazione compresa tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale. A dirlo è l’indagine Piaac-Ocse del 2019, la quale è tuttora il lavoro più affidabile in questo campo. Il nostro, quello italiano è il risultato peggiore dell’intera Europa: a fare peggio nell’area c’è solo la Turchia.

Cosa vuol dire che una persona è analfabeta funzionale? Vuol dire che sa leggere e scrivere, ma che ha delle serie difficoltà nel comprendere informazioni di vario tipo nella vita quotidiana. Ecco, mica voglio dire che tutte le persone che incontriamo sul lavoro siano delle analfabete funzionali, anzi, i numeri ci dicono che nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con persone che non hanno di questi problemi. Ma questa indagine ci aiuta a comprendere quanto sia evidente la difficoltà di comunicazione e per l’appunto comprensione tra le persone.

Qual è quindi il segreto per una comunicazione efficace, per farsi comprendere davvero, per riuscire a spiegare ai propri clienti e ai proprio collaboratori quello che va fatto, per fare in modo che risultino cristallini i rischi cui si potrebbe andare incontro agendo diversamente, o non agendo affatto? Al venir meno di questa comunicazione esatta si potrebbero causare problemi di vario tipo, e si potrebbe anche rischiare di non far partire un progetto o una collaborazione proprio per l’incapacità di far passare i concetti in modo chiaro.

Ebbene, il segreto è semplificare, abbassare il livello della nostra comunicazione. Il che non vuol dire affatto nascondere delle cose o trascurare dei passaggi. E nemmeno parlare male. No, vuol dire fare lo sforzo di esprimersi in modo che anche chi non padroneggia la materia – e che proprio per questo ci ha contattato – possa avere la comprensione minima necessaria per capire quello che va fatto, per dare valore alle attività necessarie, e via dicendo.

Ecco che allora, quando ci rivolgiamo ai clienti o ai collaboratori, o anche quando parliamo magari in una conferenza dove non tutti sono esperti, dobbiamo abbassare leggermente l’asticella, spiegando per bene meglio quello che intendiamo. I paroloni possiamo usarli, certo: se in un discorso dobbiamo nominare la “brand awareness”, per fare un esempio, possiamo assolutamente farlo, ricordandoci però di spiegare immediatamente dopo di che cosa si tratta. Alcuni non l’hanno mai sentita nominare, altri sì, ma senza sapere o ricordare il significato preciso. Quindi impariamo a spiegare quello che diciamo, soprattutto quando usiamo termini tecnici, senza però proporre una definizione talmente libresca capace di creare ulteriore confusione. E, tra l’altro, senza dare alla spiegazione un tono tale da far sentire il nostro interlocutore stupido. Non è facile. Trovare l’equilibrio talvolta richiede effettivamente uno sforzo, ma chi padroneggia l’arte della semplificazione e della spiegazione – per mezzo di esempi, di metafore o di similitudini – può trarre grandi vantaggi, creando uno storytelling di valore decisamente superiore.

Bada bene: semplificare non vuol dire impoverire. Un discorso chiaro e lineare può essere parimenti ricco di contenuto, sapendo che alle volte a fare la differenza non è la parola usata, quanto invece il modo di utilizzarla. Un bell’esempio è quello proposto da Matteo Rampin, psichiatra e formatore, nel suo libro ‘Al gusto di cioccolato’ (che trovi qui: https://amzn.to/41qzWlB) dedicato alle manipolazioni linguistiche. Per spiegare quanto la forma spesso più del contenuto cita questa storiella:

Un novizio chiese al priore:

“Padre, posso fumare mentre prego?”

e fu severamente redarguito.

Un secondo novizio chiese allo stesso priore:

“Padre, posso pregare mentre fumo?”

E fu lodato per la sua devozione.

Questo per dire che spesso non è la scelta dei termini usati a contare, quanto invece il modo in cui li disponiamo e li usiamo nel discorso. Quindi sì, semplifichiamo, adattiamoci alle orecchie di chi abbiamo davanti, impariamo a parlare in modo comprensibile, senza mai dare aria alla bocca solo per il piacere egoistico e stupido di sentire le parole fluire dalla nostra bocca. Quando parliamo – così come quando ascoltiamo – al centro ci deve essere sempre il nostro destinatario, ovvero, nel caso del consulente, tipicamente il cliente.

Share This