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Per quale motivo ci sono ancora tanti professionisti che non hanno messo in campo una decente strategia di personal branding? Di certo ormai, nel 2022, non si può parlare di “ignoranza”. Negli ultimi anni si è discusso talmente tanto di personal brand che è impossibile pensare che ci siano persone che non hanno intrapreso questa strada perché semplicemente non la conoscono. No, secondo me i motivi principali sono due. Il primo è quello che immaginiamo tutti, ovvero la mancanza di tempo o di energie. O meglio, spesso, la supposta mancanza di tempo e di energie per affrontare questa attività.

E sì, in effetti per tanti professionisti può essere effettivamente difficile ritagliarsi del tempo ogni settimana per curare e far crescere il proprio personal brand. Ma è anche vero che, visti i risultati che si possono raggiungere nel breve e nel lungo termine con il personal branding, è assolutamente conveniente trovare delle ore da dedicare alla costruzione e alla promozione del proprio brand. Ci sono poi tanti professionisti che dicono o persino credono di non avere tempo da dedicare a questa attività, e che poi in realtà sprecano ogni settimana ore preziose in meeting inutili, attività infruttuose e via dicendo: in tutti questi casi basterebbe ottimizzare l’agenda lavorativa per trovare comodamente degli slot da assegnare al proprio personal brand.

Quello della mancanza del tempo, vera o supposta, è il primo elemento che tiene lontane alcune persone dal personal brand. Il secondo è costituito dall’imbarazzo. La Treccani definisce l’imbarazzo prima di tutto come “Ostacolo, molestia, impaccio provocato da persone o cose che impediscono il libero movimento o il normale svolgersi di un’operazione”, e in secondo luogo come “stato di perplessità in cui viene a trovarsi una persona che non sappia risolversi tra contrastanti soluzioni, o che non veda via d’uscita da una situazione difficile”. Infine, come terza opzione, come “stato di disagio provocato da un sentimento di timore, di soggezione, di pudore”. Tutte e tre le definizioni sono in qualche misura calzanti, ma sicuramente la terza è quella che si adatta meglio alla nostra situazione.

Tante persone non lavorano al proprio personal brand per una questione di timore, di soggezione o di pudore. Perché non vogliono apparire, perché non si sentono abbastanza brave (come potrebbe succedere nel caso della sindrome dell’impostore), perché hanno paura di fallire, e via dicendo.

Per aggirare l’ostacolo dell’imbarazzo, vale la pena guardare al personal branding da un altro punto di vista, come qualcosa costituito da due elementi distinti. Quando parliamo di personal branding in modo superficiale – ma non troppo – ci riferiamo infatti nel concreto alla reputazione di una persona e alla sua visibilità. Ed è la seconda che blocca parecchie persone, non certo la prima: tutti vogliono avere un’ottima reputazione, anche sul piano professionale, ma non tutti sono invece portati ad avere una grande visibilità. Lo capisco, e da un certo punto di vista lo condivido pure.

La visibilità riguarda quanto e cosa il pubblico vede della tua figura. La reputazione, invece, riguarda ciò che effettivamente fai, e l’impatto che le tue azioni – professionali nel nostro caso – hanno. La reputazione non si improvvisa, non si inventa, non si crea dal nulla, ma è invece il risultato di progetti, conversazioni, attività, risultati, di giorni e giorni di tenacia, di duro lavoro e di impegno. Avere una buona reputazione è un obiettivo che qualsiasi professionista – dal libero professionista al candidato in cerca di un nuovo lavoro da dipendente – deve avere.

Da questa prospettiva, la visibilità è l’altra metà del personal branding. Ecco, se tutti devono puntare ad avere una buona o persino ottima reputazione, non tutti devono puntare ad avere una grande visibilità. Anzi, ci sono persino dei casi eccezionali in cui un professionista è tanto più apprezzato quanto più tiene un profilo basso. Ma attenzione: per fare in modo che la buona reputazione porti a dei frutti, questa deve essere comunicata. Ed è qui che, inesorabilmente, torna in gioco la questione della visibilità.

Ma, come ho ripetuto tantissime volte, brandizzare sé stessi, lavorare al proprio personal brand, non significa affatto dover diventare una specie di influencer, inseguendo milioni di follower e postando quotidianamente nuovi contenuti sui social. No, vuol dire presentare la propria figura professionale, i propri punti di forza e le proprie unicità al proprio pubblico di riferimento. E sì, per la maggior parte dei professionisti, questa audience è piuttosto ristretta, si tratta di piccole nicchie. Già qui l’imbarazzo dovrebbe diminuire: fare personal branding fatto bene vuol dire creare dei messaggi che possano risultare apprezzati dal proprio pubblico di riferimento. Perché si dovrebbe provare imbarazzo nel portare avanti un’attività di questo tipo? Imbarazzante potrebbe invece essere una strategia di personal branding che non poggia su alcun piano, che avanza a tentoni, senza portare nulla di utile a nessuno, né al professionista, né al suo pubblico.

Per evitare anche questo motivo di imbarazzo è necessario fissare fin dal principio degli obiettivi chiari: senza avere una meta precisa in testa, infatti, si sprecherà il proprio tempo, non si avranno buoni risultati e sì, si potrebbero persino creare degli effettivi elementi di imbarazzo. Per migliorare le tue possibilità di carriera, per aumentare il numero di clienti, per essere visto come il punto di riferimento per un certo tema all’interno della tua nicchia. È necessario scegliere un obiettivo principale e, di settimana in settimana, continuare a ricordare qual è la meta alla quale si punta, raddrizzando il tiro se necessario.

Va poi detto che per fare personal branding non serve per forza esporsi, non è obbligatorio fare qualcosa che ci metta a disagio. Ognuno ha il suo limite, per quanto questo sia tutt’altro che stabile nel tempo. Non è obbligatorio pubblicare dei tutorial su YouTube, non è obbligatorio avviare un podcast, non è obbligatorio nemmeno partecipare come relatore a delle conferenze del settore. Si tratta infatti solamente di alcune delle soluzioni possibili per portare avanti il proprio personal brand, ma ci sono tanti altri modi. Chi finora ha avuto difficoltà a esporsi può iniziare con delle attività a prova di introverso, e quindi con la creazione di un buon calendario editoriale per la pubblicazione di contenuti di qualità su LinkedIn (social network professionale per antonomasia, che proprio per il livello della comunicazione non dovrebbe dare luogo a pudori o timori) e sul proprio blog personale. E ancora, altri strumenti perfetti possono per esempio essere i forum del settore o strumenti più generalisti, come per esempio Quora. Più avanti, una volta preparato il territorio, sarà possibile eventualmente esporsi leggermente di più, avviando altri canali di comunicazione.

Non farti fermare dall’imbarazzo: coltiva il tuo personal brand in modo autentico e coerente, e scoprirai che non c’è ragione di temere questa attività!

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