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In un’epoca in cui veniamo quotidianamente sommersi da fiumi di immagini e di video, la voce torna ad assumere un ruolo primario anche nel mondo del marketing: il successo del podcast in questi ultimi anni e in questi ultimi mesi è infatti sotto agli occhi (pardon, alle orecchie) di tutti. E dire che persino la parola “podcast” è tutto sommato molto recente: comparve la prima volta nel 2004, quando Ben Hammersley, su un articolo di Audible Revolution, decise di fondere assieme i termini “iPod” e “broadcasting”. La nascita del podcast come strumento di comunicazione è fissata per convenzione proprio quell’anno. La sua evoluzione è stata velocissima, fino a portare questo strumento a essere un canale di spicco per il Content Marketing. Oggi possiamo ascoltare podcast ovunque, tirando in ballo Spotify, Alexa e persino Facebook, come abbiamo ricordato qualche settimana fa proprio su queste pagine. Nel 2019, e quindi prima della pandemia (che ha avuto l’effetto collaterale di moltiplicare gli ascoltatori di podcast) più della metà della popolazione statunitense aveva ascoltato almeno un podcast durante l’anno. In Italia sappiamo che almeno il 30% della popolazione ascolta un podcast almeno una volta al mese, mentre il paese più affezionato a questo media sarebbe la Corea del Sud, dove questo strumento è usato dal 58% della popolazione.

Certo, anche il mondo video ha dei numeri altissimi dalla propria parte: stando a WeAreSocial, il 92% degli italiani guarda video online. Questa cifra dovrebbe spingere tutte le persone che vogliono creare dei contenuti di marketing a guardare attivamente verso i video, ancor prima che verso i podcast. Ma attenzione: qual è lo strumento che si rivela concretamente più efficace? Sappiamo che i podcast possono essere ascoltati ovunque, anche e soprattutto nelle situazioni in cui non si potrebbe guardare un video agevolmente – per esempio mentre si passeggia o mentre si fanno degli esercizi. E sappiamo che, se i video hanno dalla loro parte una longeva presenza sul mercato, i podcast vantano una crescita velocissima, che sta accelerando ulteriormente in questi ultimi mesi, spinti anche in parte dal fenomeno Clubhouse. E ancora, sappiamo che sia i consumi di video che di podcast sono aumentati durante la crisi sanitaria, ma sappiamo anche che con il rientrare dell’emergenza i numeri relativi ai video sono tornati “normali”, laddove invece non c’è stato un ritorno alla normalità pre-Covid per quanto riguarda il podcast.

Ma qual è lo strumento che garantisce il maggior coinvolgimento del pubblico? Il podcast o il video? La pura voce narrante, oppure l’immagine in movimento con audio? Tutti sappiamo che il video, guardando all’intera storia umana, ha interessato una piccolissima frazione di tempo. Per un periodo lunghissimo di tempo, prima che la scrittura si diffondesse ad ampio raggio nella civiltà umana, il principale mezzo di comunicazione era il linguaggio orale, e quindi la narrazione di tradizioni, di miti, di leggende e di archetipi in modo unicamente orale. Questo quindi ci dice come minimo che il nostro cervello è orientato naturalmente verso la voce, e non verso il video. Certo, il video può offrire un numero molto maggiore di informazioni. Pensiamo a 5 secondi di video in cui un personaggio attraversa un quartiere cittadino conversando con un altro personaggio. Se avessimo a nostra disposizione tantissima attenzione potremmo non solo seguire il dialogo, ma anche indagare sulle espressioni facciali dei due, analizzare il loro vestiario e la loro acconciatura, ma anche scrutare i passanti, le vetrine dei negozi, le automobili sulla strada e via dicendo. In 5 secondi di narrazione orale, invece, non potremmo che accedere a un numero molto inferiore di informazioni. Ma avremmo anche potenzialmente delle informazioni specifiche in più: il narratore, nel raccontare la stessa identica storia (il dialogo in città) potrebbe dirci a cosa sta pensando uno dei due personaggi, il nome della città, il nome della strada e così via.

Quali di questi due canali, in ogni caso, può garantire un maggior coinvolgimento, e quindi più engagement? Per scoprirlo un team di ricercatori capeggiato da Daniel C. Richardson ha messo a punto un’indagine specifica, pubblicando poi un paper intitolato “Engagement in video and audio narratives: contrasting self-report and physiological measures” sulla rivista Scientific Reports.

Come è stato condotto questo studio? Si è partiti ovviamente dagli esempi già presenti nella letteratura scientifica. Studi precedenti ci dicono per esempio che nel momento in cui una persona racconta una storia e delle altre persone la ascoltano, nel cervello di tutti si trovano i medesimi pattern di attività cerebrale, a indicare che tutti tendono a vivere e a ricreare in modo uguale quella storia. Si sa inoltre che la narrazione puramente orale pone degli enigmi che il video non presenta. Pensiamo a tutto quello che ci può essere di non detto in una narrazione orale (come è vestito il personaggio, che espressione sta facendo, come si muove mentre parla?) ma pensiamo soprattutto alle ambiguità lessicali. Nello studio è fatto l’esempio della frase “The woman made the toast with a new microphone”, partendo dal presupposto che toast in inglese indica sia il panino che il brindisi: fino all’arrivo della parola “microphone” nel testo orale si potrà di fatto dubitare sul reale significato di quella parola, ambiguità che nel mondo filmico ovviamente non esiste. In scena avremo infatti un microfono, non un panino, e non ci saranno dunque dubbi.

A partire da questi presupposti, i ricercatori hanno raccolto 109 volontari, i quali sono stati sottoposti all’ascolto e alla visione di 8 differenti lavori di fiction, di quattro generi differenti. Ai partecipanti sono stati quindi sottoposti gli stessi episodi sia in formato audiolibro che in formato video: si parla di spezzoni di lavori come A Song of Ice and Fire (Game of Thrones), Pride and Prejudice, Hound of the Baskervilles, The Silence of the Lambs, Alien e via dicendo. In tutti i casi sono stati scelti degli episodi particolarmente emozionanti e molto coinvolgenti (nel caso di Game of Thrones è stato per esempio scelto il momento in cui una delle protagoniste, Arya, assiste alla decapitazione del padre).

Durante la visione e l’ascolto, i parametri dei partecipanti sono stati registrati. Parliamo di battito cardiaco, di temperatura e di EDA, ovvero di Electrodermal Activity. Il battito cardiaco aumenta a livello di ritmo con l’impegno del pubblico, e la sua accelerazione può quindi essere considerata come indice di maggiore coinvolgimento, dettato dal maggiore sforzo cognitivo. L’EDA è un dato utile poiché, per via dell’attività dell’amigdala – che è il centro delle emozioni del nostro sistema nervoso, semplificando un po’ – le ghiandole sudoripare della pelle tendono a contrarsi: per questo, misurare l’attività di queste ghiandole può essere un buon modo per controllare lo stato emozionale di una persona. La stessa temperatura superficiale può infine essere presa come un dato indicativo, essendo la termoregolazione influenzata anche dallo stato emotivo.

Ebbene, cosa è risultato da queste indagini? Interrogati attraverso un questionario, i volontari hanno dichiarato di aver provato un maggior coinvolgimento guardando i video; più nello specifico, dalle loro risposte, si arriva a capire che i video risultano del 15% più coinvolgenti. Ma attenzione: le misurazioni fisiologiche a livello di pelle, di temperatura e di battito cardiaco ci raccontano una storia del tutto differente. Il ritmo cardiaco medio era più alto nel caso degli audiolibri, il dato sull’EDA era maggiore di 0,02 microSiemens, e la loro temperatura media superficiale era maggiore mediamente di 0,34 gradi centigradi.

Quindi, perché queste persone affermavano un minore coinvolgimento durante l’ascolto degli audiolibri nel momento in cui i loro corpi dicevano esattamente il contrario? Gli studiosi rispondono a questa domanda così: “A nostro avviso le narrazioni parlate richiedono che il partecipante sia un ascoltatore attivamente coinvolto, mentre i video offrono una stimolazione maggiore a uno spettatore più passivo. Le immagini nella mente dell’ascoltatore potrebbero non essere così vivide e dettagliate come quelle sullo schermo, e per questo motivo le narrazioni uditive sono classificate esplicitamente come meno coinvolgenti; tuttavia la generazione immaginativa di quelle immagini richiede una maggiore elaborazione cognitiva ed emotiva, e risultano per questo fisiologicamente più coinvolgenti”.

Dati alla mano, dunque, il contenuto audio coinvolge più del video. E questa è, senza ombra di dubbio, un’altra ottima ragione per scegliere di inserire anche dei contenuti in formato podcast nella propria strategia di branding, impegnandosi a fondo per fornire al proprio pubblico dei contenuti originali, interessanti e ben presentati.

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