Il canale Telegram ufficiale di Alessandro Mazzù

Io sono stato un grande utilizzatore di Facebook. No, non lo sto dicendo con lo stesso tono con cui si ammettono vizi, colpe o peccati. Voglio solo partire da questo presupposto: io, Facebook, per promuovere la mia immagine professionale, l’ho usato parecchio. Fino a non molto tempo fa, diciamo fino a circa due anni fa, la mia pagina era continuamente aggiornata con nuovi post. Un nuovo progetto con un nuovo importante cliente? Un post. Un nuovo corso di marketing al via? Un nuovo post. Un fatto curioso accaduto con un cliente stravagante? Un post. In viaggio verso un nuovo progetto, in treno, auto, aereo, monopattino? Un post. O magari anche due, nel caso di un viaggio lungo. Perché è questo che Facebook promette di fare per i professionisti: dare visibilità al loro business, alle loro competenze, ai loro traguardi, in risposta a dei post che mostrano la loro attività. Ed è per l’appunto questo che fanno tantissimi professionisti, dal consulente di marketing al social media manager, passando per gli architetti, gli chef, gli artisti e i contadini bio. E per un po’ tutto questo ha persino funzionato, non benissimo, non bene, ma ha pur sempre funzionato. O così pensavo.

E poi? Poi è successo qualcosa. É successo qualcosa in me, è successo qualcosa nella piattaforma, ed è successo qualcosa tutto intorno a me e alla piattaforma.

Partiamo da me. Cosa è successo? Sicuramente sono invecchiato un po’. E probabilmente sono diventato un filino più saggio, e quantomeno un po’ più riflessivo, un po’ più critico. Probabilmente per questo motivo ho iniziato a interpretare in un altro modo tutti i post degli altri professionisti, i quali, in un modo o nell’altro, pubblicavano delle notizie professionali del tutto simili alle mie. Il nuovo cliente, il nuovo corso, il nuovo metodo, e via dicendo. Sai però cosa leggevo tra le linee di tutti quei post? Semplice: “Io sono figo”. “Io sono più bravo”. “Io ho capito tutto”. Io, io, io.

A partire da quel momento, progressivamente, ho capito che quel modo di comunicare non è giusto, e non può esserlo. Va poi detto che, sempre invecchiando – ovvero diventando più maturo, più riflessivo e più critico – mi sono avvicinato via via sempre di più al concetto di minimalismo, nella convinzione che il principio “less is more” possa essere applicato a gran parte degli aspetti della nostra vita, per avere maggiore serenità e anche maggiore efficacia.

Quindi sì, mi sono convinto pian piano che quello, usato un tempo da me e un tempo come ora da altri, non è e non può essere affatto il modo giusto per usare un social network. Possiamo dire che è un modo “malato”? Forse sì, per tre motivi diversi.

Prima di tutto, è malato perché, come un virus – e in questo periodo abbiamo sicuramente imparato a capire cosa è un virus – è contagioso. Perché se tutti fanno così, prima o dopo, probabilmente, finirai per farlo anche tu. E infatti è così, in questo modo, che comunicano praticamente tutti i professionisti che usano Facebook.

É poi un modo malato perché è dannoso, o perlomeno superfluo. È dannoso perché ci sono altre persone – sempre di più – che vedono in quei post null’altro che un’affermazione della propria supposta preminenza. “Io sono figo”, per l’appunto, un’auto-incensazione che, una volta vista, non si può più non vedere. Ed è superfluo perché non funziona, o meglio, non funziona più. Perché anche Facebook – come anticipato – è cambiato. L’algoritmo del social network per eccellenza non è più quello di una volta, e la visibilità dei post non sponsorizzati è, come ben sanno le persone che si occupano di social media marketing, decisamente ridotta, talvolta talmente misera da essere quasi nulla. E questo vale doppiamente per i contenuti di scarsa qualità o poco apprezzabili, che non arrivano praticamente a nessuno, restando bloccati sul nascere nella bacheca di chi li ha generati.

Ed è malato anche per un terzo motivo: perché una volta iniziato a pubblicare contenuti di quel tipo, a lungo andare, è difficile smettere. Perché? Di spiegazioni ce ne sono tante. Prima di tutto perché Facebook stesso, e i social media in generale, tendono a creare dipendenza. Non è un caso se negli ultimi anni si sta parlando sempre con maggiore insistenza di “disintossicarsi dai social”. Non è un gioco da ragazzi, anche perché la soddisfazione – possiamo chiamarla così? – che si prova quando si pubblica un post e i commenti subito sotto ci dicono “che bravo!”, “mitico!”, “il migliore” o “maestro, insegnami” dà a sua volta una certa dipendenza. Ma basta guardare la cosa con un minimo di realismo e oggettività per capire che, di questi commenti, di queste gratificazioni, si può tranquillamente fare a meno. Basta aprire gli occhi, e uscire dalla propria zona di comfort (una cosa che dovremmo imparare a fare più spesso, in tantissimi aspetti della nostra vita professionale e personale).

Ma smettere, oltre che essere assolutamente possibile, è anche auspicabile. Peraltro, una volta intrapresa questa via, diventa sempre più semplice continuare a percorrerla. È un po’ come smettere di fumare: mentre si sfumacchiano 10, 15 o più sigarette al giorno non ci si accorge neppure di puzzare di fumo. Solo poi, quando finalmente si riesce a dire addio alla nicotina, ci si accorge dell’odore tutt’altro che piacevole che caratterizza i tabagisti. Ecco, la stessa cosa succede per i post autocelebrativi sui social: chi smette di farli riesce a vedere nitidamente quando “puzzano” i post altrui.

Per questo motivo, o meglio, per tutti questi motivi, il mio profilo personale Facebook è morto, da circa un anno. La mia pagina Facebook è ancora in vita, ma è una vita ben grama: la uso unicamente per avvisare dell’uscita dei miei podcast e dei miei nuovi contenuti, e null’altro. Il che equivale, con l’algoritmo attuale, ad avere una pagina zombie, non proprio morta, ma nemmeno viva.

Occhio: non sto dicendo che questo modo di comunicare si trovi solamente su Facebook: anche su altri social, a partire da Twitter, il modo che va per la maggiore è esattamente questo, tutt’al più declinato di piattaforma in piattaforma con lo stile specifico dei diversi ambienti. Infatti ho cancellato il mio profilo su Twitter…

Quindi? Quindi cosa dovremmo fare? Di certo abbandonare del tutto il pianeta social, per un professionista che vuole promuovere il proprio business, e ancor di più per chi si muove nei meandri del marketing e del digital marketing, è quantomeno rischioso.

Dovremmo però iniziare a pubblicare meno, e pubblicare meglio. Persino Roberto Cingolani, l’attuale Ministro della transizione ecologica – il primo ad avere questa carica in Italia – qualche settimana fa ha invitato un po’ tutti a pubblicare meno. No, non per innalzare il livello della discussione sui social, ma più semplicemente per inquinare meno (sì, anche Internet inquina, mica funziona con la polvere magica di Trilli). Quindi ecco, nel caso in cui il mio discorso sulla qualità, sull’utilità e sull’efficacia non ti convincesse del tutto, pensa anche all’ambiente: inizia a pubblicare di meno.

Ma pubblicare cosa? È subito detto: contenuti che valga la pena leggere, che dicano davvero qualcosa, e che non abbiano l’unica motivazione di rafforzare il proprio ego. Prima di postare qualcosa, chiediamoci se stiamo dando qualcosa di utile al lettore: in caso contrario, è solo robaccia. Hai mai sentito parlare della comunicazione Human to Human? È quell’approccio che insegna a porsi nei confronti della comunicazione sapendo che dall’altra parte c’è una persona, non un consumatore né un’azienda, ma una persona unica, intesa come elemento singolo con i propri interessi, le proprie necessità, e ovviamente il proprio limite di sopportazione (che è ovviamente sempre più basso). Pensa a quelle persone, pensa al destinatario, e poi decidi se scrivere – o non scrivere.

Sia chiaro, non ti sto invitando ad abbandonare Facebook. Certo, farlo sarebbe probabilmente una cosa giusta sotto molti punti di vista, ma non voglio certo imbastire una crociata contro i social – ci hanno già pensato altri, con argomentazioni solide e peraltro in buona parte convincenti, a partire per esempio dal Jaron Lanier di “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”. Ti sto invitando a essere più critico, in modo attivo – pubblicando molto meno e molto meglio – e anche passivo, scegliendo ogni giorno di passare un po’ meno tempo a leggere contenuti che non valgono nemmeno un secondo della tua vita. E per farlo ci sono diversi metodi, dall’accedere un po’ meno a Facebook fino a un po’ di sana pulizia dei propri contatti. Che, va detto, può essere anche garbata e silenziosa, senza dover per forza scatenare dei subbugli online: anche quelli, nella maggior parte dei casi, finiscono per essere un pura e inutile affermazione del proprio ego. Io, io, io.

Se sei arrivato fino alla fine di questo post, innanzitutto grazie. Se ti va di restare in contatto con me puoi farlo in molti modi: li trovi tutti qui.

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