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Negli ultimi anni sul personal branding ne ho sentite dire un sacco. E probabilmente ne hai sentito parlare un mucchio anche tu, nel bene e (talvolta, più raramente) nel male. Il concetto di fondo è semplice: ognuno di noi, a prescindere dalla sua posizione, dalla sua età, dalla sua voglia di comunicare all’esterno il proprio messaggio, dai suoi obiettivi e via dicendo, ha – possiede già – un dato personal brand. Così come tutti noi abbiamo un volto, insomma, tutti abbiamo un marchio personale. Il cambiamento a cui abbiamo assistito negli ultimi anni sta nel fatto che parecchie persone hanno iniziato a interessarsi in modo attivo alla cura di questo marchio, un po’ come tutte le persone – o quasi – si preoccupano della cura del proprio volto, per presentarsi nel modo giusto al mondo esterno.

Si è detto in tutte le salse: prima di essere qualsiasi altra cosa – imprenditori, laureati in cerca di lavoro, consulenti, atleti, tifosi, influencer – siamo i CEO di noi stessi. Questo vale per tutti. E certo, ci sono persone che hanno più interesse di altre a gestire nel modo giusto il proprio personal brand, e che quindi possono trarre grandi vantaggi dal costruire una strategia precisa per curarlo e promuoverlo.

Riassunto tutto questo in due paragrafi – sapendo che si potrebbero scrivere libri interi e parecchio lunghi sui motivi per i quali ognuno di noi dovrebbe occuparsi del proprio personal branding – non possiamo trascurare il fatto che lì fuori ci sono persone che storcono il naso intorno a questa attenzione intorno alla propria marca personale.

Nella maggior parte dei casi, i detrattori del personal branding sono persone che semplicemente non hanno capito – o che fanno finta di non capire – quanto possa essere utile questa attività. 9 volte su 10 si tratta di quelle stesse medesime persone che diventano allenatori durante i mondiali di calcio, economisti durante le crisi finanziare, virologi durante le pandemie, politologi in vista delle elezioni e via dicendo. Sono persone che, senza avere nessun titolo per farlo, parlano di tutto dall’alto di scranni che poggiano sul nulla: spesso basta scorrere la loro pagina Facebook per carpire la vacuità della loro tuttologia. E di solito questi leoni da tastiera per il personal branding non hanno belle parole, per il semplice fatto che, per sua natura, il tuttologo su FB è “contro”, o quantomeno aspramente critico.

Ma oh, mica sempre è così. Di tanto in tanto ci sono persone che esprimono in modo del tutto legittimo e informato delle opinioni negative riguardo al personal branding. E questi detrattori vanno ascoltati, e pure bene, perché anche dalle critiche al personal branding si può imparare molto su come affrontare meglio questa attività.

Qualche giorno fa mi sono per esempio imbattuto in un’intervista a Debbie Millman pubblicata sulle pagine del New York Times. Intervista che, tra le altre cose, ha toccato anche il tema del personal branding. Ecco, per chi si occupa di design (e di podcasting), il nome di Debbie Millman è tutt’altro che nuovo. Parliamo infatti dell’anima del podcast Design Matters, il podcast più seguito degli USA.

Ma è Debbie Millman è soprattutto una designer grandiosa, che ha curato tra le altre cose il restyling dei loghi di Burger King, di Pepsi, di Kleenex e via dicendo. Fast Company la descrive come “una delle persone più creative nel mondo del business”, Graphic Design USA la cita come “uno dei designer viventi più influenti”. Ha vinto un Cooper Hewitt National Design Award nel 2011, e il suo podcast ha praticamente vinto ogni premio possibile. Dagli stessi podcast ha peraltro tratto libri dedicati al design e al branding, di enorme successo.

Insomma, se Debbie Millman espone delle opinioni negative sul personal branding ha tutte le carte in regola per farlo. E questo è vero persino quando dice – come ha fatto sulle pagine del New York Times – che il personal brand è una trappola.

Come arriva a questa conclusione? Sintetizzando un po’ – ma senza snaturare per nulla le basi del suo ragionamento, sia ben chiaro – Millman spiega che i brand non crescono sugli alberi, che non sono qualcosa di naturale, che sono anzi un costrutto artificiale. E lo sono da tantissimo tempo, dall’epoca d’oro dell’advertising, dalla Rivoluzione industriale, dai mercanti dell’Antica Grecia che marchiavano le loro anfore di vino per testimoniarne la qualità, dai simboli impressi sul bestiame dagli Egizi, quasi 5 millenni fa.

Ecco, Millman dice che i brand non hanno una vita interna, non hanno una conoscenza, non hanno sangue: sono qualcosa che noi scegliamo di creare. E fin qui sono pienamente d’accordo, ci mancherebbe.

Il discorso della designer newyorkese diventa più interessante nei passaggi successivi, quando dice che il problema del personal brand è quello di dover avere due tratti, ovvero il consenso e la coerenza. Per quanto riguarda il consenso, Millman fa riferimento al consenso di chi si riconosce in un certo brand, sia questo un marchio di caffè, un brand di scarpe o un simbolo religioso. Per quanto riguarda la coerenza sottolinea invece l’importanza per un brand di essere coerente nel tempo, senza cambiare di significato di giorno in giorno. Proprio perché al venire meno della coerenza sparirebbe anche il consenso di cui sopra.

Ed è da queste basi che Millman afferma che il personal branding può diventare una trappola. La designer punta il dito su «tutte le cose che sono così meravigliose nell’essere umano, nel cambiare idea, nell’essere disordinati, nell’essere incoerenti, tutte quello che i marchi cercano di evitare di essere».

Qui non sono più d’accordo, per il semplice fatto che Millman non sembra fare nessuna distinzione tra branding e personal branding. Certo, come dice lei «i brand sono creazioni statiche, mentre tu dovresti essere un protagonista dinamico della tua vita e della tua carriera». Ma così facendo non si sta forse forzando un po’ il gioco? Di sicuro anche io, nei miei libri, nei miei podcast e in queste stesse pagine ho ribadito più volte che, per fare un buon lavoro in fatto di personal branding, è necessario essere coerenti. Ma ho sottolineato un numero ancora maggiore di volte che è fondamentale anche essere autentici, e che il proprio marchio personale è efficace solo nel momento in cui è costruito a partire dalle proprie reali caratteristiche, difetti compresi.

Il personal branding, quello fatto bene fin dall’inizio, non può diventare una trappola per il suo fondatore, CEO e titolare, per il semplice fatto che non è creato da nulla: per l’appunto, nasce da qualcosa che esiste già, ovvero da noi. E certo, nel momento in cui crei e definisci il tuo personal brand potresti non avere le passioni, le esperienze e gli obiettivi che avrai 3 anni dopo, certo che no. Ma sarai sempre tu.

Ecco che allora chi crea e cura il proprio brand personale in modo genuino, senza imitare qualcun altro e senza indossare una maschera, non si sentirà mai in trappola nella propria strategia.

In fondo in fondo, il nocciolo della questione è sempre lo stesso: chi critica il personal branding – in maniera più o meno argomentata, in maniera più o meno legittima – lo fa a partire dal presupposto che un marchio personale è qualcosa di artificioso, che non ha delle basi reali. Ma quello è il personal brand fatto da cani, quello fatto senza una sincera riflessione iniziale, quello che muta nel tempo non tanto per il cambiamento della persona che c’è dietro, quanto per il mutare dei trend, delle mode e via dicendo.

Essere coerenti, essere riconoscibili, non tradire le aspettative del proprio pubblico: questo non vuol dire essere in trappola, questo vuol dire comportarsi come una persona che ha una buona strategia, costruita a partire da un sincero e attento studio delle proprie peculiarità.

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